Skip to main content

Reportage

Tunisia: giovani, istruiti e delusi. “Siamo tutti dei morti-viventi”

Tra i disoccupati del paese nordafricano. Un’intera generazione passata attraverso la forza tellurica dell’esclusione generata da un modello di società che crea aspettative, ma non le soddisfa DI SABINA BREVEGLIERI

di Sabina Breveglieri*

da ERE Emilia Romagna Europa online, la rivista dell’Ires Emilia-Romagna ospitata su Rassegna.it

Quando arrivi in Tunisia apprendi che esiste una categoria che in altri paesi non ha molto senso. È quella dei Diplômés Chômeurs, Diplomati disoccupati, che ha perfino un’associazione che li rappresenta – l’Udc, Union de diplômés chômeurs – e che è molto attiva. Secondo i dati più aggiornati, riferiti al primo trimestre 2015, la disoccupazione è al 15% (www.ins.nat.tn), in diminuzione dal periodo post-rivoluzione, ma non ancora tornata neppure al tasso degli anni del presidente Ben Ali.

Dei senza lavoro, più del 30% ha un titolo di studio superiore (più del 60% se tecnici o laureati in facoltà scientifiche), il 20% sono maschi, il 39% femmine. C’è n’è abbastanza per organizzarsi in categoria. In numeri assoluti, i disoccupati sono 600.000, di cui 240.000 con titolo d’istruzione superiore. Per le donne va sempre peggio che per gli uomini: il 22,2% di quelle attive è disoccupata, a fronte dell’11,4% maschile.

E poi c’è la categoria del Chômeur-Entrepreneur, e cioè del Disoccupato-imprenditore, che raggruppa coloro i quali tentano la via dell’autoimprenditoria per poter assicurarsi un reddito. Alcuni si raggruppano e diventano Chômeurs-Porteurs de Projets, collettivi di poche unità che hanno un’idea di impresa, anche con valenza culturale e sociale, che sperano nei programmi di sostegno e encouragement pubblici.

Il fenomeno disoccupazione, giovanile diremmo noi, è quindi ben conosciuto e ampiamente inserito nelle statistiche, che ne elencano caratteristiche e peculiarità. Un problema presente in tutte le agende di organismi impegnati negli aiuti internazionali, nonché nei programmi di tutti i partiti tunisini. Il governo, dal canto suo, sta a guardare senza intervenire, non ha proposte efficaci, non ha piani per le nuove generazioni. Non è dunque un caso se il 97,3% della popolazione affermi che quello della corruzione è al primo posto nella classifica dei problemi da risolvere.

Leggendo articoli e saggi sul paese nordafricano capita spesso di imbattersi in frasi del tipo “in Tunisia i giovani sono disillusi dalla politica e non si sentono rappresentati”. Una frase che sembra dire tutto, come tutte le altre che riempiono i quotidiani quando in Tunisia accade qualcosa. E che invece non dice nulla.

Poi un pomeriggio di una torrida estate, ti trovi a incrociare, davanti alla stazione ferroviaria di Sousse, un gruppo di Diplômés Chômeurs, che vorrebbe diventare Chômeurs-Entrepreneurs e che ancora sono Chômeurs-Porteurs de Projets (né più né meno che i partecipanti ai nostri progetti di promozione dell’economia sociale e solidale). E allora comprendi in pieno il significato delle analisi sociologiche.

Il vero volto della realtà. L’effetto diretto del fenomeno disoccupazione. Senti parole come “disperazione”, frasi come “non possiamo andare avanti con la nostra vita”. Allora ti rendi conto che l’Udc ha un’anima e un cuore. Non sono solo giovani dall’atteggiamento un po’ assistenzialista, che rivendicano diritti campati in aria. La realtà è ben diversa. Questi ragazzi hanno la testa e il cuore fissi su di un solo pensiero: rendersi autonomi dalle proprie famiglie e riuscire a costruirsi un futuro, come lavoratori e come persone.

Senza accorgermene pongo una domanda mentre sorseggio una bevanda che mi aiuta a tenere sù la pressione sotto i 42° gradi celsius. “Ma perché la Tunisia ha il maggior numero di foreign fighters?”. La risposta è illuminante. “Perché sono dei morti viventi. Siamo tutti dei morti viventi”. Quelli di cui hanno notizia i miei amici dell’Udc lo fanno per identità, per denaro (3.000 dollari al mese), per autonomia.

Morti-viventi passati attraverso la forza tellurica dell’esclusione generata dal modello di società occidentale (la Tunisia è il paese che più guarda all’Europa) che crea aspettative, ma che non le soddisfa per avere sempre pieno il serbatoio di quelli da sfruttare e ricattare. Schiacciati dalle forze dell’immobilità della società tradizionale, dai costumi della doppia morale, per la quale non sei compiuto se non ti sposi, ma non puoi sposarti perché non hai lavoro. Morti-viventi attratti dalla forza fatale delle risposte offerte in termini di denaro e riconoscimento da Isis & Co.

Ma è anche la seconda parte della risposta a lasciarmi un senso di profondo disorientamento: “Siamo tutti dei morti viventi”. Non solo chi decide di entrare in un sanguinoso esercito o di creare cellule terroristiche, ma anche chi non trova in patria o nell’emigrazione una risposta di futuro si considera un senza speranza. Questi morti-viventi riempiono i caffè di Tunisi e dell’intero paese. Anche nei villaggi sperduti, polverosi, sparpagliati lungo le strade a due corsie che attraversano l’intero territorio nazionale, è pieno di questi caffè-cimiteri. Simbolo della libertà ritrovata. Da cui le donne sono escluse. Lapidi a cui i giovani si aggrappano anzitempo.

E allora che l’università non risponda alle esigenze del mercato del lavoro, sembra anche questo solo un alibi mortifero. Perché le università tunisine formano ottimi studenti e laureati, tanto che i migliori se ne vanno in Francia a fare gli ingegneri nucleari. A quale mercato del lavoro ci riferiamo? A quello che crede nel lavoro come esercizio della propria soggettività? O a quello che fa richiesta di manodopera senza valori, né identità, con il solo fine di perpetuare lo status quo delle disparità e dell’esclusione sociale? Al quale in fondo anche l’Isis, con le sue finalità deregolatrici, fa gioco.

I miei amici tunisini hanno coniato la definizione per una nuova categoria di senza lavoro, quella dei Chômeurs-Penseur, dei disoccupati che pensano, desiderano il lavoro e non un lavoro. Come se anche la loro Costituzione, all’articolo 1, avesse posto il lavoro tra i fondamenti dello Stato.

*Nexus Emilia Romagna