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Il crossing point di Qualquilia èuno dei sei valichi di frontieraa cui possono accedere i lavoratori
palestinesi che quotidianamente vanno a lavorare in Israele.Ogni notte da 2 a 8 mila palestinesi
provenienti dai villaggi compresi tra Ramallah e Nablus, raggiungono il valico di Qualquilia
iniziando, così, in modo umiliante e vessatorio, quella che sarebbe una normale giornata
lavorativa.

Il crossing point è situato sulla frontiera che divide i territori palestinesi e lo stato d’Israele,
secondo quanto accordato dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e riconosciuto dall’Accordo di pace
di Oslo, corrisponde alla cosiddetta Linea Verde, dal colore del pennarello con cui si segnarono
sullacarta geografica i confini dello stato d’Israele, con l’accordo tra Israele ed i paesi confinanti nel
1949, successivamente ripreso dalla Risoluzione242 del Consiglio di Sicurezza nel 1967, a seguito
della guerra dei sei giorni, nel giugno dello stesso anno.
Il valico si anima già dalle prime ore della notte, i lavoratori si accalcano e si incanalano nei corridoi
che portano alla postazione dove i militari israeliani, dettano i tempi ed i movimenti diquella che,
col passare dei minuti diventa una lunga fila umana, simile al movimento sinuoso dell’ anaconda
per i suoi movimenti sinuosi e per la sua compattezza, con le persone strette ai lati dalla rete
metallica e pressati sempre più dal fondo della coda. I tempi sono scanditi dai semafori e dalla
voce metallica del militare di turno. Verde avanti, rosso fermi.La lunga fila è sotto il controllo dei
militari che, da una torretta in cemento armato, impartiscono ordini. Nessun militare è visibile,
nessun contatto è previsto, in caso di disordine o di tumulto, i tornelli e le grate dalla parte dei
militari si chiudono, e l’unica via di fuga è verso la coda della fila.
Nel passato vi sono stati numerosi incidenti e scontri conferiti e con il blocco del valico, per questo
il sindacato palestinese, in accordo con il governatore di Qualquilia, che ha l’autorità della sicurezza
fino la valico, essendo territorio palestinese di Zona A, sempre secondo quando definito dagli
Accordi di Oslo, ha organizzato un presidio per organizzare il passaggio e per fornire informazioni ai
lavoratori sui loro diritti in Israele. Il sindacato PGFTU (Palestinian General Federation of Trade
Unions) ha aperto un ufficio in un piccolo locale con personale volontario, che opera nelle ore di
passaggio dei lavoratori.
Il flusso, come già segnalato, comincia già in piena notte e termina alle sei del mattino. I primi a
mettersi in coda, alle due di notte, sono i lavoratori che debbono raggiungere il sud di Israele, che
necessitano di altre 2/3 ore di viaggio, per essere, puntuali, sul posto di lavoroentro le sette del
mattino. Quindi, via via gli altriche sono in possesso dei due requisiti indispensabili per passare il
valico: il permesso di ingresso e la lettera di assunzione o il contratto di lavoro , fino ad arrivare alle
quattro del mattino. Da questa ora possono presentarsi anche coloro che hanno solamente il
permesso di ingresso e non il contratto di lavoro, dichiarando di dover acquistare prodotti,merci,
ma in realtà, il commercio è una scusa per passare e cercare un lavoro in nero, nel florido mercato
del locale caporalato. Dal momento dell’arrivo al crossing point all’uscita sul lato israeliano, si
passano tre controlli, il permesso di ingresso,il contratto o la motivazione del viaggio, l’ispezione
fisica. Il tempo medioè di tre ore. Il sindacato è riuscito ad ottenere un passaggio dedicato alle
donne ed a chi è in particolari condizioni di bisogno, per ridurre i tempi, la sofferenza e le
umiliazioni. I volontari che svolgono il servizio sono anch’essi dei lavoratori che, terminato il loro
turno,si sottopongono ai controlli e vanno a lavorare in Israele come gli altri. Da quando è stato
istituito questo servizio non vi sono più stati incidenti ed i tempi di passaggio sono più regolari. Ma,
oltre a questo aspetto organizzativo e di miglioramento umano del trattamento, il sindacato svolge
un importante attività di informazione, distribuendo libretti in arabo sulla legislazione del lavoro
israeliana, sul salario minimo, sull’orario di lavoro, sul cosa fare in caso d’infortunio o di malattia, in
caso di licenziamento o di fine lavoro. Diritti fondamentali che, purtroppo, visto lo stato di palese
indifesa dei lavoratori e delle lavoratrici palestinesi in Israele, sono sistematicamente violati e ben
difficilmente denunciati e risarciti. Solamente a Qualquilia, il sindacato palestinese raccoglie
mediamente oltre 100 denunce all’anno che sottopone ad avvocati israeliani, i quali valutano i casi
e se questi sono ben documentati, li assumono difendendoli in Tribunale, trattenendosi una
parcella del 20% sull’importo recuperato, spettante al lavoratore. Nel corso del 2013 i casi
presentati e vinti sono stati 83, di cui 23 per lavoratori occupati nei settlements (colonie illegali)
per un totale di circa 500 mila euro. Mentre, nei primi 4 mesi del 2014, sono già state presentate
31 denunce. Vista la debolezza e la vulnerabilità del lavoratore palestinese, facilmente ricattabile
dai datori di lavoro israeliani, le denunce si riferiscono quasi esclusivamente nel caso del fine
contratto o in caso di licenziamento, quando, in sostanza, il lavoratore non ha più nulla da perdere.
Mentre, non sono denunciate le violazioni contrattuali e gli incidenti sul lavoro, a contratto in
corso.
Ma torniamo sull’aspetto della vita quotidiana. I lavori riservati ai palestinesi sono quasi
esclusivamente sei settori delle costruzioni, dell’agricoltura e dei servizi, con orari che vanno dalle
sette del mattino alle tre o quattro del pomeriggio, che, sommati ai tempi del passaggio del valico e
del trasporto casa/lavoro, significa, nel migliore dei casi, uscire di casa alle quattro del mattino per
tornarvi non prima delle sei/sette di sera, nel migliore dei casi e senza alcun imprevisto. Il rientro,
deve sempre avvenire dal valico di uscita, anche se fosse più comodo attraversarne un altro. Un
impegno che risulta essere impossibile per la maggior parte delle donne e che toglie agli uomini,
stragrande maggioranza dei transfrontalieri, ogni possibilità di vita sociale e familiare.
Perché, quindi circa 35.000 palestinesi regolari con permesso e con regolare contratto si
sottopongono quotidianamente a questa vita, o molti di loro, si organizzano rimanendo in Israele
da domenica sera a venerdì sera, rischiando e vivendo in condizioni di semi-clandestinità,
accettando discriminazioni, umiliazioni e la separazione dalla propria famiglia ? Per avere un
lavoro ed un salario migliore di quello che avrebbero in Palestina.
Ed è la stessa risposta che ci viene data dai lavoratori palestinesi occupati nelle colonie illegali, “ il
mio problema è spiegare la mondo che io sono contro le colonie israeliane e contro l’occupazione
israeliana, ma nello stesso tempo debbo lottare per difendere il mio lavoro ed i miei diritti di
lavoratore nelle colonie !!! ” questo è quanto abbiamo ascoltato dai lavoratori palestinesi di Gerico,
dipendenti di una officina meccanica, di proprietà israeliana, insediatasi nella zona industriale di
Mistor Adumimm, in piena violazione con le convenzioni internazionali, le risoluzioni delle Nazioni
Unite e gli Accordi di pace di Oslo. Un’officina che impiega 61 operai, tutti altamente specializzati
per le riparazioni dei motori degli autocarri, che si sono organizzati e dopo una dura lotta hanno
dato vita al sindacato d’azienda, hanno ottenuto il contratto collettivo,il rispetto del salario minimo
ed ora stanno facendo la vertenza per il riconoscimento delle diverse fasce professionali e
d’anzianità.
Le zone industriali installate da Israele in modo illegale, nel territorio palestinese, mentre il
processo di pace è fermo, sono sei, distribuite in diversi distretti palestinesi, occupando circa
22.000 lavoratori palestinesi, la maggior parte dei quali non ha un contratto, nessun diritto e
nessuna protezione sociale. In questi distretti industriali i sindacati palestinesi non possono
neppure entrare ed i sindacati israeliani, salvo alcune rare eccezioni di piccole ong israeliane
impegnate a favore dei diritti umani che, visto il vuoto di assistenza e l’assenza dei sindacati, hanno
iniziato a svolgere un’azione di promozione e di denuncia dei diritti del lavoro, non svolgono alcuna
azione di tutela.
Stessa situazione si presenta nelle colonie presenti lungo la valle del Giordano, dove circa 8.000
lavoratori palestinesi sono impiegati nelle colonie israeliane. Anche qui, senza contratto, senza
tutele e senza alcun tipo di assistenza e di controllo sulle malattie causate dai prodotti chimici e dai
frequenti incidenti. Il sindacato palestinese di Gerico ci segnala il frequente impiego di lavoro
minorile da parte dei coloni israeliani, le tremende condizioni di lavoro a cui sono soggetto i
raccoglitori dei datteri, lasciati anche 4 ore sui cestelli, ad oltre quindici metri d’altezza, alla mercé
di serpenti e ratti, ed obbligati a fare i propri bisogni fisiologici in quelle condizioni. Salari giornalieri
di 13/15 Euro, un terzo di quello previsto dal salario minimo obbligatorio,come ha sentenziato la
Corte Israeliana che impone il rispetto del salario minimo israeliano anche nelle colonia (sentenza
del 2010).
In questo contesto le violazioni dei diritti del lavoro e le discriminazioni tra lavoratori israeliani e
palestinesi sono profonde e strutturali. Le donne palestinesi, maggiormente occupate nelle attività
del lavoro domestico e dell’agricoltura, sono le prime vittime di questa situazione. Ricevono salari
al di sotto del minimo di legge, 7 Shekels, contro i 23 Shekels previsti dalla legge israeliana, E,
spesso, il 40% del loro salario è trattenuto dall’intermediario di turno, israeliano o palestinese che
sia. Lavorano fino a dodici ore giornaliere e subiscono minacce ed abusi sessuali, come ci viene
denunciato dal sindacato di Gerico, senza che nessun sindacato possa intervenire a loro difesa.
Le condizioni dettate dall’occupazione israeliana che negano la possibilità della nascita dello stato
e lo sviluppo dell’economia palestinese, non fermano però quella solidarietà e spirito di fratellanza
che si riproduce tra lavoratori. Il segretario del sindacato palestinese dei chimici di Tulkarem, ci ha
raccontato la storia di Dani e di Ahmad, per spiegare quanto grande è la loro sofferenza e quale sia
la via d’uscita da questo dramma apparentemente senza soluzione. Nella zona industriale di
Tulkarem, in Area C palestinese, occupata illegalmente da Israele, vi è un importante polo chimico.
Alcuni anni or sono è scoppiato un incendio in un’azienda dove lavorano sia palestinesi che
israeliani, alcuni lavoratori sono rimasti intrappolati dentro, sono stati chiamati i soccorsi dal lato
israeliano, e gli operatori dell’ambulanza israeliana hanno soccorso per primo Dani, l’operaio
israeliano ustionato. Dani però chiedeva informazioni di Ahmad, il suo amico e collega palestinese,
rimasto con lui nell’incendio, e si rifiutò di lasciare il posto senza Ahmad. I soccorritori sono stati
costretti a recuperare Ahmad, e quindi, sono partiti per l’Ospedale. Ahmad era molto grave, ma in
Ospedale, hanno iniziato a medicare Dani, il quale si è nuovamente rifiutato di farsi curare perché
aveva capito che il suo amico Ahmad era in gravi condizioni. Alla fine, Ahmad, pur se assistito, non
ce l’ha fatta.
Lo stallo dei negoziati e del processo di pace, protratto dal fallimento dell’Accordo di Oslo, che
possiamo datare con l’assassinio del Presidente israeliano Yithzak Rabin (1995), ha permesso agli
israeliani di proseguire con la politica di acquisizione e di sfruttamento dei territori palestinesi,
aumentando il numero delle colonie, installando le zone industriali ed asfissiando sempre più
l’economia palestinese, sempre più dipendente dagli aiuti internazionali, dalle rimesse e dalla
stessa economia di Israele.
Il tasso di disoccupazione nei territori palestinesi è superiore al 27%, di cui il 55% sono giovani. Il
salario minimo, da poco approvato, e raramente rispettato è di poco superiore ai 300 Euro mensili,
con un costo della vita che definisce in 500 Euro la linea della povertà per una famiglia palestinese,
contro il salario minimo israeliano, di poco inferiore ai 1.000 Euro. Dei 15.000 giovani palestinesi
che ogni anno escono con un diploma dalle scuole superiori ed università, solamente 5.000, un
terzo, trovano una occupazione, il resto, o emigra o cerca occupazione legalmente o illegalmente in
Israele o è costretto ad accettare un lavoro nei settlements, sottoponendosi a forti problemi di
coscienza ed a possibili contestazioni, se non minacce.
Una delle tante contraddizioni presenti è la trattenuta sindacale obbligatoria per i lavoratori
palestinesi in Israele (mentre questa è libera e volontaria per i lavoratori israeliani), i cui fondi sono
canalizzati ad Histadrut, che a sua volta, gira il 50% della quota sindacale al PGFTU, sulla base di
una accordo sottoscritto nel 1995. Ma a questa particolare situazione non corrisponde una
adeguata assistenza agli oltre 30 mila lavoratori palestinesi in Israele. Il sindacato palestinese non
può intervenire in Israele ed il sindacato israeliano Histadrut, sulla base delle informazioni raccolte,
non ha attivato un servizio di assistenza e di tutela per questi lavoratori, nonostante, i suoi dirigenti
dichiarino che “le porte del nostro sindacato sono aperte ed a disposizione dei lavoratori
palestinesi regolari”.In realtà, quello che emerge dalle testimonianze dirette dei lavoratori e dalle
associazioni israeliane, come Kalaoved, WAC-MAN, e dallo stesso PGFTU, l’assistenza legale è
privata e costa il 20% sul risarcimento ottenuto e quindi detratto dai benefici spettanti al
lavoratore. La domanda e l’offerta di impiego in Israele è controllata da un sistema di brokers,
intermediari palestinesi ed israeliani, che taglieggiano i lavoratori, trattenendosi una mensilità su
sei, e ricattando i lavoratori con i rinnovi dei contratti in caso di lamentele o denunce. Un sistema di
sfruttamento, di discriminazioni e di violazione dei diritti umani e del lavoro, nonostante questi
lavoratori siano tutti formalmente sindacalizzati.
Se questa è la situazione dei lavoratori palestinesi con contratto di lavoro e con permesso di
ingresso in Israele, immaginiamo quali possano essere le condizioni di lavoro e di vita, di quei
lavoratori che non hanno ne contratto ne permesso d’ingresso.
In sintesi, l’occupazione israeliana, la costruzione di nuove colonie, la dipendenza economica
palestinese all’economia israeliana, oltre a minare strutturalmente la pace e la soluzione dei due
stati per i due popoli, determinano per la popolazione palestinese un deterioro delle condizioni
materiali e psicologiche di vita, con un deficit di lavoro sia in termini quantitativo che di condizioni
dignitose, tali da obbligare una massa consistente di palestinesi, stimata in oltre 300 mila, ad
accettare qualsiasi lavoro, in qualsiasi posto, calpestando i propri principi, i propri diritti e le proprie
aspirazioni individuali ed identitarie. Una condizione che va denunciata e contrastata con la
richiesta del rispetto delle convenzioni e degli accordi internazionali, senza più deroghe e
giustificazioni.
Le informazioni e le riflessioni del presente articolo sono state raccolte durante la missione e gli
incontri realizzati da una delegazione della CGIL, composta dal Dipartimento delle Politiche Globali,
dalla CGIL Lombardia, CGIL Emilia Romagna, FIOM, NEXUS, che ha visitato Israele ed i territori
palestinesi dal 10 al 15 maggio 2014.