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Articolo di Sergio Bassoli sulla prima udienza dei testi (caso Bernardo Arnone – Uruguay e caso Omar Venturelli – Cile) del Processo Condor – processo alle dittature militari degli anni 70/80 in America del Sud.

I racconti dei familiari riaprono ferite e traumi rimasti per anni nel fondo della memoria, schiacciati e nascosti dalla nuova vita faticosamente costruita in esilio, dalle nuove relazioni, dal quotidiano che ti inchioda a sbarcare il lunario, dalla scomparsa dei compagni e delle compagne di un tempo. Madri, nonni, parenti che hanno visto e che hanno raccontato ciò che accadde quasi quarant’anni fa, lasciando indizi, documenti, testimonianze, nomi, lettere, tracce del proprio caro, scomparso, diventato l’ennesimo caso di desaparesido, consegnando a chi resta il dovere di ripetere la domanda che vale una vita: dov’è la persona cara scomparsa, dove sono i suoi resti. Desaparesido da allora ad oggi, senza risposta.

Nell’aula del Tribunale di Rebibbia, sfilano i testi del “Processo Condor”, la bobina del tempo si riavvolge, la ferita si riapre, il racconto è interrotto dall’emozione, le parole portano la mente oltre oceano, terre lasciate in fretta e furia, per sfuggire all’arresto, pensando di rivedere, presto, chi era già preso o chi tardava ad uscire. I luoghi sono Buenos Aires, Montevideo, Temuco, Santiago del Cile, Asunciòn, i rumori sono quelli delle celle fredde ed umide degli scantinati, le voci sono le urla delle vittime della tortura e dei loro aguzzini. Rebibbia è lontana, nel tempo e nello spazio.

Le prime testimonianze sono di Cristina e di Maria Paz, la prima moglie di Bernardo Arnone giovane militante uruguayano, e la seconda, figlia di Omar Venturelli, ex-sacerdote e militante cileno.

Bernardo e Cristina, poco più che ventenni sono attivi nel movimento studentesco di Montevideo, entrambe si rifugiano in Argentina, a Buenos Aires per sfuggire alla repressione dei militari in Uruguay e continuare la lotta politica dal paese vicino. Bernardo scompare il 1 ottobre 1976, in una retata preparata e coordinata dai servizi dei due paesi, per decapitare l’organizzazione del gruppo politico uruguaiano in cui militava (“Partido por la Victoria del Pueblo”). Cristina, che all’epoca dei fatti, condivideva la militanza politica con Bernardo, riuscì a fuggire, via nave, rifugiandosi prima in Svezia e quindi, in Italia, dove tutt’ora vive.

Omar Venturelli, era un sacerdote cileno, proveniente da una delle famiglie italiane che tra il 1903 ed il 1905, partirono dall’appennino modenese, per cercar fortuna nelle Americhe, approdando in Cile con un contratto di colonizzazione dei territori vergini nel sud del Cile, ancora popolati dai Mapuche. Dopo vaer terminato il seminario a Santiago, rientra nella sua regione, e per il suo  impegno a favore delle lotte sociali dei Mapuche contro i latifondisti, fu sospeso a divinis dalla chiesa cilena. Omar, si mise ad insegnare filosofia all’Università Cattolica di Temuco, continuando il suo impegno e la sua militanza politica nel movimento “cristiani per il socialismo” e nel MIR (Movimiento de Izquierda Revolucionaria). Subito dopo il colpo di stato del’11 settembre 10973, il suo nome fu tra quelli che avrebbero dovuto subito presentarsi in commissariato. Fu il padre a convincerlo ad andare in caserma, sicuro che si sarebbe trattato di una semplice formalità. Da quel momento, passò da una caserma all’altra, subendo torture varie, per poi essere trasferito, la sera del 3 ottobre 1973 alla base dell’aeronautica di Maquehue (Temuco), dove, a seguito delle torture, secondo testimonianze di chi fu al suo fianco, morì il 4 ottobre del 1973.

Maria Paz, allora di appena due anni, è riuscita a ricostruire quanto è accaduto a suo padre,  attraverso i racconti della madre (Fresia, insegnante, attivista e militante politica come il marito, rifugiatasi nell’Ambasciata italiana di Santiago del Cile ed esule in Italia, deceduta), del nonno, della zia e di amici e conoscenti del padre, mostrando l’ultimo messaggio del padre, una lettera indirizzata a lei, piena di raccomandazioni e con l’impegno di rivedersi, forse…chissà.

In queste prime storie, vere, crude, toccanti, è apparso chiaro il piano repressivo e violento dei golpisti e delle dittature militari, che decisero di farla finita con l’opposizione politica, superando di gran lunga l’immaginazione di quelle generazioni di giovani che si ribellarono ai colpi di stato ed alla perdita delle libertà, delle loro famiglie ed in generale dell’insieme delle società latinoamericane che non avevano idea di che cosa stesse bollendo in pentola: l’eliminazione fisica. L’azione è stata mirata, programmata, pianificata in tutti i suoi dettagli ed aspetti organizzativi, logistici e materiali, grazie all’ampia copertura degli apparati statali e con l’attenta regia e supervisione del Dipartimento di stato degli Stati Uniti d’America.

Era la messa in pratica della lotta al pericolo comunista, alla nazionalizzazione delle imprese estrattive, alle riforme agrarie, all’esperienza cubana. Era la difesa degli interessi geo-politici ed economici degli USA,  su quello che veniva considerato “il giardino di casa”. Il Piano Condor non fu null’altro che la regionalizzazione della strategia repressiva e di ripristino dell’ordine secondo il volere del Dipartimento di Stato americano, trasmesso ed accettato dai militari eversivi in Cile, Uruguay, Argentina, Paraguay, Bolivia e Brasile.

Le testimonianze ascoltate confermano che quelle società non erano preparate a tanta crudeltà e violenza. Che le stesse famiglie, padri e madri dei giovani sequestrati, hanno tardato anni per rendersi conto di quanto stesse succedendo e cosa era accaduto ai propri cari. Nessuno poteva immaginare che vi fossero i centri di detenzione clandestina, centri di tortura, i voli della morte, le fosse comuni, i neonati sequestrati e scomparsi sotto nuove identità. Nessuno poteva credere che le istituzioni, la chiesa (non tutta, ma la chiesa, quella ufficiale, delle alte gerarchie, ha preso la parte dei golpisti o ha taciuto), le forze di polizia, l’esercito, l’aeronautica, la marina, tutti quanti potessero nascondere la verità, mentire alle domande della famiglia amica, del parente, del conoscente. Un sistema pianificato che ha generato terrore e paura nella società, ricattando e minacciando, con noi o contro di noi, e se sei contro sai che fine farai tu e i tuoi cari.

Le sofferenze e le vittime hanno nomi e cognomi, il lutto e la domanda di giustizia è dei familiari ma è anche una domanda ed un’esigenza della società intera, di quei paesi, di quelle comunità, è di noi tutti, perché il crimine di cui stiamo parlando è contro l’umanità intera: é la soppressione della vita per eliminare idee politiche, libertà d’espressione, diritto di associarsi, diritto di dimostrare la propria idea.

Singoli casi che spalancano la finestra sulla società di allora e su quella di oggi. Quella che ha taciuto per paura o perché incosciente, quella di oggi che fatica a fermarsi, a riflettere per fare i conti con il passato, come sono i casi di  Uruguay e Cile, dove nonostante la presenza di governi democratici e progressisti, e Presidenti che hanno vissuto sulla loro pelle questi drammi, ancora non si è aperta la stagione della verità e della giustizia.

Per questo, il processo apertosi a Rebibbia, per i casi dei desaparesidos di origine italiana è senza alcun dubbio una grande opportunità per avvicinare il momento della verità e della giustizia, per risvegliare questa necessità nella coscienza collettiva delle società di quei paesi. Ripartendo dalla ricerca di giustizia per le 22 vittime del processo italiano, la speranza è che si possa arrivare alla verità ed alla giustizia per tutti i desaparecidos.