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Tuffarsi nel mondo sindacale cileno oggi è un viaggio nel futuro oggi ipotizzato dal sistema delle imprese italiane. L’esperienza ed il confronto con la realtà sociale e politica cilena è di una chiarezza inequivocabile sulla portata, la direzione e l’approdo dei processi di stampo neoliberista che stanno attraversando l’Europa da anni.

Il Cile, a quarant’anni dal golpe di Pinochet (11/09/1973), e dopo quarant’anni ininterrotti di applicazione della dottrina economica dei Chicago Boys (sia durante la dittatura che negli ultimi 20 di democrazia), ci racconta di un paese in cui le disuguaglianze sociali sono sempre più marcate e in cui non sembrano esistere anticorpi al progressivo dispiegarsi delle dinamiche che le hanno prodotte.

Nel viaggio di interscambio che abbiamo avuto modo di affrontare ci è stato rappresentato un paese con uno dei più alti tassi di indebitamento privato e di uso di psicofarmarci del mondo. Un paese ossessionato dal consumo, devastato nelle condizioni di lavoro, impregnato di cultura individualista, sfiduciato dalla politica e profondamente disuguale. L’origine di questo panorama la rintracciamo nell’attacco militare e sistematico sofferto dal lavoro, che in questo periodo storico é stato mercificato e annullato nella sua possibilitá di essere spazio di diritti ed articolazione di un’alternativa al presente stato di cose.

Una buona parte dei lavoratori cileni ha orari settimanali che superano le 45 ore (il 20% dei salariati lavora 56 ore a settimana), condizione che sicuramente é ancora piú diffusa se sommiamo gli orari normali, gli straordinari o i doppi lavori che diventano necessari perché le retribuzioni non garantiscono una vita dignitosa: secondo le ultime inchieste, infatti, il 50% dei lavoratori cileni guadagna meno di 500 euro al mese. Il working poor in Cile non è un’anomalia né è una novità, quanto piuttosto una realtà dispiegata da decenni, e per questo i quartieri alle porte di Santiago parlano la lingua della povertà e dell’emarginazione di massa.

In questo contesto il sindacato non è un soggetto di trasformazione ma al più un ideale di qualcosa che non c’è.
Le forme sindacali attuali sono le stesse definite dal Plan Laboral dell’epoca pinochettista (1978/1979), e che negli ultimi 20 anni non sono state cambiate. Le associazioni sindacali in Cile non possono che avere un radicamento esclusivamente aziendale perché ai lavoratori è impedito per legge contrattare collettivamente oltre le mura giuridiche della propria azienda. Per questa ragione non è possibile parlare di sindacato al singolare perché “costituzionalmente” il sindacato è uno strumento che divide invece che unire i lavoratori, e che accompagna e non contrasta le dinamiche di mercato.

Oggi in Cile la contrattazione è aziendale o è individuale, e non è possibile, perché vietato, aprire vertenze che uniscano lavoratori dello stesso settore ma di aziende diverse; alle rappresentanze sindacali è permesso contrattare solo le condizioni di lavoro dei propri iscritti, e con una sostanziale assenza di un diritto di sciopero reale. Il “Codice del lavoro” inoltre impone chiare limitazioni ai contenuti della contrattazione collettiva, proibendo esplicitamente discutere le materie che “possono restringere o limitare la facoltá dell’imprenditore di organizzare, dirigere e amministrare l’impresa”. Nel complesso, questi elementi dipingono un quadro che contrasta fortemente le possibilitá di sviluppare l’autonomia del sindacato ed ogni possibilità di estensione ed allargamento della propria azione.

Unica alternativa esistente a questa frammentazione è la CUT, storica confederazione unitaria dei lavoratori cileni, che però oggi sconta tutta la crisi di un sindacato che negli anni della dittatura è stato represso, e negli anni della democrazia ha salvaguardato la propria sopravvivenza attraverso un costante collateralismo ai governi di centro sinistra, proprio mentre questi nulla facevano per cambiare la costituzione politica e materiale del paese.

La Cut, anche agli occhi di un osservatore estemporaneo ed esterno, sembra essere percepita dai lavoratori e dai delegati di base come una organizzazione chiusa ed autoreferenziale, molto burocratica e poco rappresentativa, ed in ogni caso incapace di essere o divenire un punto di riferimento generalizzato per la trasformazione delle condizioni di vita e lavoro.
Con la elezione della nuova presidenza, avvenuta nell’agosto 2012, la Cut sta da poco vivendo un momento di cambiamento che, nelle intenzioni dell’attuale gruppo dirigente, vorrebbe portarla fuori dalle secche dell’inefficacia in cui in questi anni si era infilata.

Ad aiutare e spingere un processo di rinnovamento delle forme e dell’azione sindacale viene in soccorso anche il movimento studentesco, che negli ultimi tre anni è stato il vero protagonista politico della scena cilena.
Gli studenti universitari, insieme a quelle delle scuole superiori, negli ultimi anni hanno invaso le piazze e le strade con un livello di partecipazione politica che è stata una ventata di ossigeno in un paese dove da tempo la politica era uscita dalle vite delle persone.
Gli studenti hanno chiesto e chiedono scuole e università pubblica in un paese dove le politiche neoliberiste hanno privatizzato tutto, e dove di pubblico è rimasto poco o nulla.
Chiedono una scuola pubblica e gratuita non per risparmiare sulla formazione e avere più denaro da spendere in altre forme di consumo, ma perché la formazione pubblica deve essere un diritto universale riconosciuto dalla Costituzione; a partire dal tema della formazione chiedono un cambio di direzione di tutte le politiche economiche e sociali nel paese. Chiedono una svolta.
E’ una nuova generazione che sta scuotendo il paese, i partiti ed anche la CUT che ammette di non essere stato ancora in grado di costruire con questo movimento un rapporto politico vero e proficuo.
E’ la prima generazione a non avere paura, come in Cile spesso vengono nominati, e c’è da augurarsi che dalle mobilitazione studentesche nascano anche nuove rivendicazioni che intreccino da subito la tematica del lavoro.
“Qui il neoliberismo è nato, e qui finirà” hanno scritto nei propri cartelli gli studenti in lotta. Loro, di certo, non hanno paura del cambiamento.

Simone Vecchi, FIOM