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Si è svolta nei giorni scorsi (30 di gennaio e 1 di febbraio) a Il Cairo la riunione del Forum dei Sindacati Democratici della regione MENA (Middle East – North Africa), promossa dalla Confederazione Internazionale dei Sindacati (CSI- ITUC), a cui hanno partecipato diverse confederazioni europee, tra cui la CGIL.

Con questa iniziativa la CSI-ITUC sta cercando di monitorare una situazione politica e sociale estremamente complessa, assistendo i sindacati locali nelle loro iniziative e fornendo loro appoggio internazionale, in stretta collaborazione con il programma per i lavoratori (ACTRAV) dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Durante l’incontro, a cui hanno partecipato rappresentanti sindacali di Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Mauritania, Bahrain, Libia, Giordania, Palestina, Libano è stata presentata una analisi preoccupante dello stato dell’economia della regione, oltre ad una informazione sulle crisi politico sociali che si stanno affrontando in Egitto, in Bahrain ed in Tunisia.

Il tasso di disoccupazione medio regionale è del 15%, con una percentuale di economia informale che va dal 65% all’85%, a seconda dei paesi. Essendo una popolazione giovane la forza lavoro cresce ad un tasso del 3% all’anno. I giovani diplomati non trovano lavoro, mentre 5 milioni di minori nella regione lavorano dall’età  di 9 anni. Le donne percepiscono salari differenziati dagli uomini ed il trend occupazionale è in forte discesa per le resistenze culturali e religiose, rappresentando oggi meno del 26% degli occupati. Si registra un aumento della povertà  a causa della forte riduzione delle rimesse degli emigrati, mettendo a nudo l’assenza di vere politiche di sviluppo, e la dipendenza dall’economia estrattiva (42% del PIL dell’intera regione), come noto soggetta alle fluttuazioni del mercato internazionale ed incapace di generare sviluppo locale, posti di lavoro, sostenibilità   e mercato interno.

Gli investimenti stranieri sono calati drasticamente nei paesi delle rivoluzioni, con la diretta conseguenza di perdite di posti di lavoro nei settori manifatturieri e dell’agricoltura. Stessa crisi ha toccato il settore turistico. Esistono due emergenze strutturali regionali, il deficit idrico e la dipendenza alimentare che dovrebbero essere affrontate con politiche di investimento e piani di sviluppo sostenibile, pena l’ampliarsi della povert   e dei conflitti. Al contrario, crescono gli investimenti e le spese militari con percentuali da capogiro, ad indicare la strada intrapresa dai governi e dagli accordi commerciali internazionali.

A questo scenario economico, emerso nei vari interventi di economisti e sindacalisti, si aggiunge l’analisi più propriamente sindacale, che completa un quadro molto preoccupante e che ci chiama in causa direttamente per gli investimenti e gli accordi che l’Unione Europea, gli stati membri e le imprese europee stanno portando avanti nella regione. Questi continuano nella vecchia logica di sempre, senza porsi la benché minima attenzione e condizionalità   al rispetto dei diritti umani fondamentali e all’urgente necessità, di questi paesi, di avviare una strutturale riconversione delle proprie politiche di sviluppo orientate a combattere la povertà, l’esclusione sociale, il saccheggio delle proprie risorse naturali e la contaminazione del proprio territorio. Per queste ragioni, dai sindacati della regione ci viene rivolto un appello ad unirci alle loro rivendicazioni esigendo ai nostri governi, all’Unione Europea ed alle imprese italiane ed europee il rispetto dei principi fissati nella Carta Europea dei Diritti Umani, l’applicazione delle Convenzioni internazionali dell’OIL, quali condizioni per promuovere investimenti e accordi commerciali, affinché la cooperazione sia coerente e di reciprocità, di mutuo interesse per lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento della democrazia, delle libertà  e dei diritti.

Queste richieste si rafforzano e trovano tutta la loro giustificazione quando si passa ad analizzare i vari casi dei paesi della regione, dove, senza eccezione alcuna, non esistono condizioni di normalità, quindi di stabilità   e di sicurezza, economica, politica, sociale ed ambientale. Dal Bahrain alla Mauritania, è una mostra di situazioni e di contesti drammatici che però, come precedentemente segnalato, non trovano una adeguata e responsabile risposta da parte della comunità   internazionale.

Il conflitto palestinese che non vede soluzioni mentre Israele prosegue a costruire nuovi insediamenti sul territorio palestinese, con la popolazione di Gaza isolata da oltre sei anni, e quasi 5 milioni di profughi palestinesi rinchiusi nei campi tra i vari paesi della regione.

Il conflitto del Sahara Occidentale, la cui mancata soluzione non consente la normalizzazione dei rapporti dentro il Marocco e tra questo stato e Algeria e Mauritania.

La guerra civile in Siria, con la crisi umanitaria, le sue ripercussioni sulla fragile stabilità del Libano e, sullo sfondo, l’Iran ed il rischio di una nuova guerra di dimensioni globali.

Ma sono i diritti umani e del lavoro ad essere nuovamente minacciati e repressi, nonostante la scomparsa dei vecchi tiranni, da Ben Ali, a Mubarak a Gheddafi. Si continua a proibire la libertà di associazione ed il riconoscimento dei sindacati indipendenti, il dialogo sociale non esiste, e dove viene riconosciuto attraverso la firma di accordi tripartiti, come è il caso della Tunisia, contestualmente vengono assaltate le sedi sindacali ed i sindacalisti picchiati e minacciati (vedasi quanto accaduto nel mese di dicembre all’UGTT, e l’assassinio del leader politico dell’opposzione Chokry Belaid, successivo alla riunione).

In Bahrain quando il popolo ha iniziato a protestare ed il sindacato si è mobilitato, il governo ha iniziato ad uccidere e reprimere. Ma il sindacato non ha reagito nello stesso modo, rifiutando la pratica violenta, nonostante le tante provocazioni e le violenze subite. 5000 lavoratori sono stati licenziati in tronco per aver partecipato alle manifestazioni di piazza. Il governo ha inoltre organizzato una campagna mediatica contro i sindacati e contro l’OIL, con l’accusa di essere organizzazioni sioniste, visto che il sindacato israeliano, Histadrut, ne è membro. Le leggi, come quella ultima che regolamenta le relazioni industriali, sono state approvate senza alcun tipo di confronto con le parti sociali.

In Egitto, a due anni dalla rivoluzione di Piazza Tahrir, il paese è sull’orlo di una guerra civile. Lo sostiene l’ex Ministro del Lavoro, il Dottor Ahmed Bouray, silurato nel giugno del 2011dalla Giunta Militare, dopo aver tentato di attuare quelle riforme per le quali, i giovani, le donne e gli esclusi, hanno manifestato ed occupato le piazze. Giovani che hanno rischiato la propria vita, per cacciare l’ultimo dei faraoni, Hosmi Mubarak, superando la paura e mettendo in gioco tutto quello che era rimasto nelle loro menti e nei loro corpi. Giustizia sociale, vita dignitosa e pane, questi sono stati e rimangono gli obiettivi della rivoluzione di quei giorni e, fino a quando la gente non li avrà conquistati, continua Al Bouray, la gente non tornerà nelle proprie case.

Purtroppo, è amaro constatare che oggi, dalle speranze della rivoluzione di Piazza Tahrir, dopo oltre cinquant’anni di regime oligarchico-militare, l’Egitto debba nuovamente difendersi dal rischio di ritrovarsi un altro regime, questa volta di stampo teocratico. Un rischio che la popolazione svegliatasi da quel lungo letargo, durato decadi, sembra non più disposta a subire in silenzio, sottomettendosi alla prepotenza, preda della paura e dell’impotenza.

Le proteste di oggi vanno lette in questa direzione e non come la rivolta dei tifosi della squadra di calcio di Porto Said, per la sentenza sulle violenze e i morti del febbraio 2012.

Lo scontro politico e sociale è profondo e nazionale. In ballo vi è la definizione delle regole di convivenza e del nuovo modello di società egiziana.

La discussione sulla nuova costituzione è la cartina di tornasole del progetto di società  dell’attuale governo e dei Fratelli Mussulmani, al di là  delle dichiarazioni e degli impegni presi in sede internazionale per tranquillizzare i partner economici e l’establishment istituzionale occidentale. In questo documento, le riduzioni delle libertà   e dei diritti umani fondamentali sono presenti in ogni articolo, dalla legalizzazione del matrimonio e del lavoro minorile a partire dai nove anni di età, alla rottura della parità   tra uomo e donna, alla scomparsa del reato di traffico di persone, che proteggeva soprattutto le donne, per non parlare delle limitazioni delle libertà di associazione, di espressione e di costituire sindacati liberi ed indipendenti. Il progetto della nuova costituzione è l’oggetto del contendere, dove si scontrano i diversi ideali e modelli di società egiziana, mentre la piazza e le strade sono il campo di battaglia, avendo, una parte, occupato tutti i luoghi istituzionali e di rappresentanza politica.

La situazione si fa quindi esplosiva. Se da un lato vi è la consapevolezza che la democrazia, le libertà, lo stato di diritto, sono condizioni non ancora alla portata del paese, per ragioni storiche e come conseguenza del perpetuarsi di politiche di esclusione sociale. Ne è riprova il fatto che è ancora possibile, oggi, comprare i voti con la distribuzioni di alimenti ed offrendo favori e promesse. Dall’altro lato, i giovani e le forze democratiche non sono più disposte a subire soprusi come le limitazioni delle libertà e dei diritti, per cui lo scontro, in assenza dello spazio politico, diventa inevitabile e frontale.

In quindici giorni ottanta persone sono morte e la protesta non si ferma. Al coprifuoco decretato dal governo nelle città  del Sinai, i ragazzi, a mo’ di sfida, rispondono giocando a calcio nelle strade. Si annuncia un accordo tra i leader religiosi e le forze del Fronte di Salvezza, per bloccare la spirale di violenza nel paese, ma le strade, all’uscita dalla preghiera sono ancora piene di gente che manifesta. Fra due mesi ci saranno le elezioni parlamentari e, finalmente, le forze laiche e democratiche si presenteranno come un unico Fronte, per contrastare lo strapotere delle forze islamiste e fondamentaliste.

Nel frattempo, l’economia non gira, gli investimenti stranieri sono al minimo storico, l’inflazione e l’aumento dei prezzi degli alimenti stanno strangolando le fragili economie familiari. Molte fabbriche chiudono, oltre il 45% della popolazione è sotto la soglia della povertà, corruzione ed illegalità dilagano. L’economia informale, ossia lavoro nero, è oltre il 65% del PIL. Il Presidente Morsi è costretto a chiedere prestiti ed aiuti alla comunità  internazionale e, ancora una volta, i paesi occidentali, Europa e USA in testa, fanno a gara per proteggere i loro interessi commerciali e nazionali, sottoscrivendo accordi senza porre quelle condizionalità di rispetto dei diritti umani che stanno alla base delle nostre costituzioni e del contratto sociale di pacifica convivenza.

A conclusione della conferenza i sindacati arabi presenti hanno redatto una dichiarazione che contempla richieste di e prese di posizione, in sintesi: il rifiuto ed il contrasto alla restaurazione dei regimi, il sostegno ai palestinesi con Gerusalemme capitale dello Stato palestinese, la fine dell’occupazione, la demolizione del Muro di separazione, il sostegno alla popolazione egiziana ed ai sindacati indipendenti, oltre che egiziani, di Algeria, Yemen e Mauritania, il rifiuto ai licenziamenti di massa come ritorsione per le proteste, la promozione dei diritti delle donne e per l’occupazione giovanile, e per ultimo, l’appello a partecipare al prossimo Forum Sociale Mondiale di Tunisi.

Sergio Bassoli